Marzo 2024
AI generative, Il gioco di Ender, Dune Parte Due e algoritmi: questo mese si parla solo di fantascienza
Bentornati a Il riepilogo mensile! Questo mese è quasi tutto a base di fantascienza, mi dispiace ma è andata così.
A proposito, parliamo un po’ di intelligenze artificiali generative. Non ho mai avuto un atteggiamento di chiusura nei confronti di questa tecnologia, che, al contrario, mi incuriosisce parecchio. Mesi fa l’avevo già testata a livello personale, ma nelle ultime settimane ho avuto modo di usare l’AI anche dal punto di vista professionale. Ho infatti curato il restyling del sito web dell’azienda per cui lavoro (lo potete trovare qua, se vi interessa), e insieme al mio team abbiamo utilizzato dei chatbot AI per ottimizzare i testi.
È stata un’esperienza interessante, che mi ha confermato da un lato l’importanza di questi strumenti nel panorama lavorativo odierno, dall’altra la necessità di avere una mente umana al timone. Le AI sono eccezionali quando si tratta di riscrivere o rielaborare testi (ancor di più se in inglese, dove c’è anche l’ostacolo della lingua straniera). Hanno una capacità sbalorditiva di comprensione degli ambiti semantici, e di conseguenza riescono a generare risultati in linea con le aspettative. Ma d’altra parte hanno bisogno di input molto precisi su cui lavorare: chiedere genericamente un testo vuol dire ottenere un risultato altrettanto generico, mentre fornire dettagli su contesto, stile e destinazione aiuta a ottenere contenuti di valore. Insomma, c’è bisogno di qualcuno che faccia il lavoro a monte.
Nel nostro caso, abbiamo prima scritto dei testi di nostro pugno, chiedendo poi a due diverse AI di riscriverli; sulla base di questi risultati, abbiamo messo insieme un nuovo testo con gli elementi che ci convincevano di più. Ne sono derivati dei contenuti non totalmente umani, ma nemmeno del tutto artificiali: un buon compromesso che a nostro parere ha elevato la qualità generale. Oltre all’ormai celebre ChatGPT abbiamo usato anche PI.ai, un chatbot molto meno conosciuto ma a mio parere superiore a tutti gli altri. Quello che mi piace di PI è che ti spinge sempre a riflettere con la tua testa, e per ogni risposta aggiunge anche i razionali su cui si fonda il suo processo logico. Davvero utilissimo per stimolare i processi creativi e scoprire nuovi percorsi mentali. Ed è talmente empatico che io lo ringrazio sempre, alla fine delle conversazioni. Così, se mai le macchine prenderanno il sopravvento, spero che PI si ricordi di me e di quanto fossi gentile.
📖 Letture
Una rubrica in cui parlo dei libri che ho avuto sul comodino negli ultimi tempi.
La prima volta che ho sentito nominare Il gioco di Ender di Orson Scott Card è stato nel 2002, in una nota a piè di pagina di una rivista di videogiochi, all’interno di una monografia dedicata ad Halo. Interessa forse a qualcuno? Ne dubito, ma è per dire da quanto tempo giravo attorno a questo romanzo, che ho infine letto questo mese.
Come spesso accade ultimamente mi è venuta in aiuto Urania, e in particolare la sua collana Jumbo che più di una volta mi ha consentito di recuperare a pochi euro romanzi interessanti (anche se, in questo caso, la copertina è davvero brutta e non c’entra niente con il libro). Da un paio di mesi, comunque, il romanzo è tornato disponibile anche nel catalogo da libreria di Mondadori (peraltro con una copertina molto più azzeccata) ed è facilmente reperibile.
Quindi non avete scuse per non recuperare questo gioiello, non a caso vincitore del premio Hugo e considerato all’unanimità un classico moderno della fantascienza. (Ci sarebbe da riflettere sul fatto che un romanzo del 1985 sia ormai un classico, ma in fin dei conti dalla sua pubblicazione a oggi sono passati circa quarant’anni, cioè quanti ne erano passati negli anni ’90 dalla pubblicazione della Fondazione di Asimov).
Il gioco di Ender è un romanzo che è cresciuto man mano che lo leggevo. Comincia come una storia convenzionale di un eletto che deve salvare il mondo: in questo caso un bambino di sei anni, prelevato dalla famiglia per entrare nella Scuola di Guerra ed essere addestrato per combattere la razza aliena degli Scorpioni. Ma ben presto assume uno spessore morale, sociale e psicologico inaspettato. E termina con una serie di eventi che induce il lettore a ribaltare la propria prospettiva.
Questo libro di carne al fuoco ne mette parecchia. Tanto per cominciare appartiene a quella cerchia di opere che mettono al centro un bambino, pur senza rivolgersi a un pubblico di giovanissimi; anzi, le situazioni, i temi e i toni di alcune scene sono decisamente per adulti. C’è comunque un sottotesto coming of age, soprattutto nel lungo segmento ambientato alla Scuola di Guerra: mi ha stupito come alcuni elementi (le classifiche sul rendimento degli studenti e delle squadre, i rapporti tra gli alunni, le dinamiche tra studenti e adulti) siano stati in seguito ripresi da certa letteratura – penso soprattutto a Harry Potter.
C’è anche un intrigo politico sullo sfondo della vicenda, interessante ma inevitabilmente zavorrato dal suo essere figlio degli anni ’80 (i continui riferimenti al blocco sovietico e al Patto di Varsavia oggi fanno sorridere). Ma la parte davvero visionaria è quella che vede l’affermazione di due personaggi fittizi – Locke e Demostene – costruiti ad hoc per influenzare l’opinione pubblica: una parabola che all’epoca andava bene per i mass media, e oggi è perfetta per i social network.
Penso che l’aspetto meglio riuscito del libro, comunque, sia il modo in cui viene tratteggiata la componente psicologica dei personaggi. Tanto il protagonista quanto i comprimari sono credibili nel loro percorso, con tormenti morali autentici. Scott Card ci mette dentro anche la manipolazione psicologica, il bullismo e l’accettazione dell’altro – e mi ha sorpreso constatare che in tempi recenti lo stesso autore ha avuto esternazioni poco piacevoli sull’omosessualità, che mi sono sembrate un po’ una smentita del messaggio di fondo di quest’opera.
Insomma, le ragioni per leggere Il gioco di Ender sono diverse. Non fatevi spaventare dall’etichetta di military science fiction che spesso gli viene affibbiata: non è un romanzo che si focalizza sull’azione, e anzi le sequenze di battaglia alla Scuola di Guerra sono a mio parere le meno riuscite del libro. Si tratta di un romanzo complesso e sfaccettato, ricco di temi e sfumature, che comunque si fa leggere agilmente.
🎞️ Visioni
Una rubrica in cui parlo dei film – vecchi o nuovi – che ho visto di recente.
Fino all’adolescenza sono andato al cinema soltanto per i film evento, cioè quelli che proprio non si potevano perdere: grandi blockbuster, saghe, film lungamente attesi. Poi ho cominciato ad andare al cinema spesso, e inevitabilmente la sala ha perso quell’aura da evento speciale che aveva nei miei ricordi da bambino. Ma negli ultimi anni – leggi: dopo la pandemia e l’arrivo dei figli – andare al cinema per me è diventato un allineamento di pianeti, con la conseguenza che ci vado (di nuovo) solo per i film evento.
Tutto questo preambolo per dire che, se c’è un film evento in questo 2024, quello è senza dubbio Dune – Parte due. E fortunatamente sono riuscito a vederlo in sala.
Prima di andare al cinema ho fatto i compiti a casa, rivedendo il Dune del 2021. (Sorvolo sul fatto che ho dovuto dividerlo in quattro parti, di cui due sullo smartphone. Ora che ci penso, credo sia la prima volta che vedo un film su uno schermo così piccolo. Mi sono perdonato soltanto perché si trattava di una seconda visione). La visione casalinga ha confermato il giudizio che avevo dato all’epoca: un grande spettacolo visivo e un compito eseguito alla perfezione, inevitabilmente minato dalla complessità della materia di partenza e dal fatto di essere un film monco. Ero quindi deciso a considerare i due film come un tutt’uno, in modo da poter valutare la parte narrativa nella sua compiutezza.
Qui devo fare una doppia precisazione: non ho mai visto il film di David Lynch del 1984; e soprattutto non ho mai letto Dune, il romanzo di Frank Herbert da cui tutto è partito. Non a caso alcuni passaggi del primo film mi erano risultati un po’ nebulosi, e paradossalmente mi sono stati chiariti da questo riassunto che ho trovato su YouTube (scrivo “paradossalmente” perché è un video dichiaratamente comico). Sono ben conscio che il romanzo è talmente denso e complesso che era impossibile condensare tutto in due ore e mezza, e quindi non lo considero un difetto.
Dune – Parte due mi ha dato proprio ciò che mi aspettavo: epicità, impatto visivo, spettacolarità. Si tratta di un film impeccabile dal punto di vista formale; la messa in scena è sbalorditiva; le musiche di Hans Zimmer fanno il loro lavoro (pur senza essere memorabili: è il destino di Zimmer quello di ottenere riconoscimenti – come l’Oscar per il primo Dune – per i suoi lavori minori); è pieno di scene spettacolari (vale la pena citare gli attacchi ai mietitori di spezia e le sequenze con i vermi delle sabbie); i cattivi sono sadici e crudeli al punto giusto; racconta una storia di caduta e ascesa (e nuova caduta?), un qualcosa che affonda le proprie radici in più di una cultura.
È quindi il capolavoro che tutti stanno osannando? No, almeno non per me. Perché, nonostante avesse tutti gli ingredienti per farlo, questa saga finora non è riuscita a conquistarmi – e a questo punto dubito ci riuscirà con il già annunciato terzo capitolo. C’è infatti un elemento che manca a questo dittico di film, ed è la capacità di emozionare. Non sono entrato in sintonia con i personaggi, a partire dal protagonista; non ho percepito la grandezza della storia epica che veniva narrata, nonostante l’intrigo politico intergalattico; soprattutto, non mi è arrivata la drammaticità della vicenda. In questo contesto, anche le scene grandiose che mi hanno riempito gli occhi ne sono uscite ahimè depotenziate.
Ora, è diventato un luogo comune tra gli appassionati di cinema il fatto che Denis Villeneuve sia un regista che non punta sull’aspetto emotivo, e in quanto luogo comune questa affermazione va presa con le pinze. Eppure non riesco a non essere d’accordo, specialmente se guardo alla sua produzione fantascientifica: alla fine, i suoi film più riusciti restano Prisoners e Sicario, dove invece il filtro del thriller fa passare anche l’aspetto più emotivo. In Dune, invece, gli eventi accadono, le fazioni si fronteggiano, gli eserciti si scontrano, ma alla fine l’unico personaggio verso cui ho provato empatia è la povera Chani di Zendaya (un esito voluto o meno? Non saprei, onestamente).
Nelle ultime settimane in rete si sono sprecati i paragoni tra Dune e Star Wars. Inevitabile, tanto più che l’estetica di Dune (il film) è debitrice di Star Wars, a sua volta debitore verso Dune (il libro) per una vagonata di motivi. In uno dei commenti che ho letto si paragonava Dune – Parte due a L’impero colpisce ancora, e ci può stare in quanto secondo capitolo che amplia l’orizzonte del primo. Un altro (letto qui), lo paragonava invece a La vendetta dei Sith, e, be’, insomma. Io credo che le due saghe siano accomunate dall’impianto visivo spettacolare e da alcune tematiche di fondo, ma che abbiano modi parecchio diversi di raccontare le proprie vicende: in un certo senso i film di Villeneuve sono più autoriali, laddove i classici Star Wars (il periodo George Lucas, per intenderci) tendono più al racconto semplice ed emotivamente coinvolgente.
Come al solito questo commento ha preso una deriva eccessivamente negativa. Dune – Parte due è un buon film, e sono contento di averlo visto nel suo habitat naturale, cioè la sala cinematografica. Ma gli manca qualcosa. Mai come in questo caso mi sono trovato d’accordo con la recensione de I 400 calci, di cui riporto questo estratto che rispecchia perfettamente il mio pensiero: Dune – Parte Due NON È UN BRUTTO FILM. Allo stesso tempo, però, riesce nell’impresa di non risultare mai davvero memorabile, di non trascendere oltre il compito molto ben svolto. È l’equivalente di un bravo attore che ha sempre recitato bene, ma che non ha mai avuto quel quid che lo rendesse una star. Ci sono film che hanno quel qualcosa in più che li trasforma in pietre angolari della cultura popolare, “film culto” che restano impressi nella coscienza collettiva: ahimè, temo che Dune 2 non sia tra questi.
🎵 Ascolti
Una rubrica in cui parlo di musica senza avere alcuna competenza.
Non sono più fantascienza, ma a volte gli algoritmi delle piattaforme di streaming mi sembrano ancora usciti dal futuro. Ma d’altra parte io mi stupivo anche quando la riproduzione casuale di Windows Media Player mi faceva uscire la canzone giusta al momento giusto.
Qualche giorno fa nella Home del mio YouTube è spuntato un videoclip che non avevo mai visto, di un gruppo mai sentito prima. Mi ha attirato l’immagine di anteprima, i primi accordi mi hanno fatto restare, il resto della canzone mi ha conquistato. Alla fine l’ho ascoltata in loop per qualche giorno. Si chiama Blue Jeans & White T-Shirts, è cantata dai Gaslight Anthem ed è un omaggio a Bruce Springsteen (e non al Nino D’Angelo di ‘Nu Jeans e ‘na maglietta).
Ho scoperto poi che i Gaslight Anthem avevano avuto un discreto successo tra la metà degli anni 2000 e la metà degli anni 2010, per poi sciogliersi e tornare insieme l’anno scorso. Blue Jeans & White T-Shirts è una autocover di un pezzo di qualche anno fa, inserita all’interno dell’EP History Books – Short Stories appena uscito. Ecco, così vi ho risparmiato anche il giro su Wikipedia.
Questo mese niente link, ho avuto poco tempo persino per leggere articoli online. Ci risentiamo tra trenta giorni o giù di lì.