Giugno 2024
Un viaggio in Belgio, due libri che ho letto, una canzone che ho ascoltato all'infinito e gli Europei di calcio
Bentornati a Il riepilogo mensile!
Questo mese sono stato all’estero per lavoro, e mi è sembrata la scusa perfetta per inaugurare una nuova rubrica dedicata ai viaggi – che con l’estate ci sta benissimo, tra l’altro. Troverete anche il resoconto di due libri che ho letto, di una canzone che ho ascoltato ossessivamente e infine – è inevitabile – si parlerà anche degli Europei di calcio.
Buona lettura!
🗺️ Esplorazioni
Una rubrica in cui parlo dei posti dove sono andato, in Italia e nel mondo.
A inizio mese impegni lavorativi mi hanno portato per cinque giorni a Ghent, in Belgio.
Non ero mai stato in Belgio in vita mia, quindi ho piantato una nuova bandierina sul mio immaginario planisfero mentale (ognuno ha i problemi che si merita, che devo dirvi). Ghent – o Gent, o Gand, a seconda della lingua in cui la volete pronunciare e trascrivere – è un posto dove probabilmente non sarei mai andato se non fosse stato per questa trasferta di lavoro; e avrei fatto male, perché è una città molto carina.
Ho avuto solo dei ritagli di tempo per esplorarla – gran parte delle giornate le ho trascorse in ufficio – quindi la mia visione risulta inevitabilmente parziale. Per dirne una: avrei voluto visitare almeno il bel castello o una delle numerose chiese che dominano il centro storico, ma dalle 18 in poi era tutto chiuso e io prima di quell’ora in centro non ci sono mai arrivato. (Alle 18 cade la penna un po’ ovunque a Ghent: mi è capitato di essere in fila alla cassa di un negozio, e i commessi hanno cominciato a spegnere le luci per mandare un messaggio inequivocabile a chi si attardava tra gli scaffali).
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Ho avuto comunque modo di passeggiare per il centro storico: curatissimo e ordinato come in ogni città mitteleuropea, si dipana lungo un intricato sistema di canali che mi ha ricordato Amsterdam (città dove peraltro non sono mai stato). Un luogo in cui convivono lo storico e il moderno, il raffinato e l’underground, dove edifici contemporanei si mischiano con architetture del passato senza soluzione di continuità. Visto che i negozi erano già chiusi, la vita si addensava attorno alle birrerie, presenti praticamente a ogni angolo e prese d’assalto tanto dai locali quanto dai turisti. C’era un’atmosfera piacevole in giro, dovuta anche alla vasta comunità universitaria che ha sede in città, e sicuramente resa ancora più gradevole dalle giornate lunghe e dal clima fresco.
Qualche problema in più l’ho avuto con il cibo. Manca una vera e propria cultura gastronomica locale, e una volta assaggiate le patatine fritte e i waffel la questione potrebbe anche essere archiviata (io non bevo birra, altrimenti lì si sarebbe aperto un mondo). Per cinque giorni mi sono dovuto comunque nutrire in qualche modo: e infatti con le mie colleghe siamo finiti prima in un ristorante sudamericano, e l’ultima sera – per disperazione – in una pizzeria napoletana. L’assenza di una cucina identitaria e la forte immigrazione rendono alcune strade un caleidoscopio di ristoranti etnici, ognuno con i suoi annessi odori: e per quanto possa essere affascinante la prima sera, alla lunga uno comincia ad avere nostalgia degli spaghetti al pomodoro (classico italiano all’estero, sorry).
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Ma in questo viaggio non c’è stata solo Ghent. L’ultimo giorno – colpo di scena – ho fatto una capatina nei Paesi Bassi per un’attività di team building sulla spiaggia (!). E visto che anche nei Paesi Bassi non c’ero mai stato, ho piantato un’altra bandierina. La località in cui sono capitato si chiama Cadzand; sorge al confine col Belgio, e scopro da Wikipedia che non è nemmeno un comune, visto che dal 1970 è stato inglobato nella municipalità di Oostburg, che a sua volta nel 2003 è stata inglobata nel comune di Sluis, e poi basta almeno fino al prossimo riassetto amministrativo, chissà.
Cadzand è un ameno villaggio costiero, dove spiccano grandi alberghi fronte mare e piccole villette. Era pieno di auto con targhe tedesche, indizio fin troppo facile per indovinare chi viene a svernare da queste parti. La spiaggia è una tipica spiaggia del Mare del Nord: larga, lunga, grigia, ventosa. A suo modo affascinante, va detto.
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All’andata, mentre un pullman mi portava dal Belgio ai Paesi Bassi, ho attraversato stradine di campagna curate oltre ogni immaginazione, costeggiate dalle immancabili piste ciclabili; questo dettaglio mi ha colpito in modo particolare, perché sono cresciuto in un posto dove le strade di campagna non hanno mai visto una manutenzione nell’arco della loro esistenza. Sulla via del ritorno, invece, sono passato per il villaggio di Retranchement, dove villette graziosissime si alternano ai classici mulini a vento olandesi, in un quadro che sembra uno stereotipo e forse lo è.
Insomma, è stata una bella esperienza. Ghent vale una visita, magari associata a Bruges o Bruxelles, tanto è tutto molto vicino e a portata di auto o treno. Ora torno a parlare di argomenti che mi sono più congeniali.
📖 Letture
Una rubrica in cui parlo dei libri che ho avuto sul comodino negli ultimi tempi.
Visto che il mese scorso questa rubrica è saltata, a questo giro mi faccio perdonare con ben due letture che mi hanno fatto compagnia nelle ultime settimane. Letture molto diverse tra loro: da un lato continua la mia ricerca del romanzo d’avventura perduto (di cui avevo già dato conto in questo post); dall’altro, visto che sono stato in Belgio, mi sono detto che forse poteva avere senso leggere un romanzo di un autore belga. Ma andiamo con ordine.
Il profanatore di testori perduti è il terzo libro che leggo di Marcello Simoni, e ormai posso affermarlo con una certa sicurezza: questo autore non riesce proprio a entrare nelle mie corde. Eppure sulla carta gli elementi ci sarebbero tutti: ambientazioni storiche, intrighi misteriosi, spesso e volentieri omicidi irrisolti. In questo caso specifico, a differenza dei suoi romanzi più famosi, era poi ancora più marcata la componente avventurosa; senza contare che la vicenda è ambientata nell’Egitto medievale, con tutto il suo carico di fascino esotico e misterico. Nonostante ciò, al libro non sono riuscito ad assegnare più di 2 stelle su 5.
Sono due i problemi principali del romanzo, a mio parere. Il primo è lo stile di scrittura di Simoni: davvero troppo piatto per i miei gusti, senza alcun guizzo creativo né – cosa ben peggiore per un romanzo d’avventura – evocativo. Certo, Simoni utilizza un lessico ricercato, con tanto di parole desuete e termini in arabo, ma paradossalmente non è riuscito a portarmi nel romanzo, nei suoi luoghi, nelle sue atmosfere: e considerando il potenziale dell’ambientazione, mi è sembrata un’occasione sprecata. Lo stesso difetto lo avevo riscontrato anche in altri suoi libri, e sono ben consapevole che si tratta di un disallineamento tra il suo modo di scrivere e il mio gusto personale.
Il secondo problema è nella caratterizzazione dei personaggi. Ho apprezzato l’ampia scala di grigi con cui Simoni ha tratteggiato i protagonisti della vicenda, con ribaltamenti di fronte e personaggi moralmente ambigui; ma le loro motivazioni e i punti di svolta della trama mi sono sembrati piuttosto deboli. Non ho provato empatia per nessuno – anzi, qualcuno mi ha suscitato proprio antipatia, e non so quanto ciò fosse voluto. La moltiplicazione dei punti di vista, poi, non ha aiutato.
Un aspetto positivo del romanzo – come anche negli altri che ho letto di Simoni, va detto – è l’accuratissima ricerca storica, tanto negli eventi che fanno da sfondo alla vicenda quanto nella ricostruzione della vita quotidiana dell’epoca. Simoni è un ex bibliotecario, e la passione per la documentazione rigorosa emerge con forza in ogni pagina. Forse però è proprio questo che zavorra il romanzo: a tratti sembra più una cronaca che una narrazione, come se l’autore fosse più interessato al contesto storico che alla vicenda di fantasia che sta raccontando.
Come al solito, quando non parlo bene di un autore affermato, mi sento in difetto perché la quarta di copertina recita “oltre un milione e mezzo di copie vendute”. Allo stesso tempo, mi sono sforzato di decostruire il libro, cercando di carpire i segreti del suo successo. Al di là delle mie preferenze personali, è evidente che lo stile asciutto – semplice, oserei dire, senza che ciò sia necessariamente un difetto – ne facilita la diffusione presso un pubblico piuttosto ampio. E il mix di atmosfera esotica, fazioni in lotta tra loro e derive avventurose piace. Insomma, è stata comunque una lettura istruttiva, che non mi pento di aver fatto.
L’uomo che guardava passare i treni è il primo romanzo di Georges Simenon che leggo. Simenon è un autore che volevo affrontare da anni, ma un po’ ero intimorito dalla mole della sua produzione – parliamo di centinaia di romanzi – un po’ non volevo imbarcarmi nella serie pressocché infinita del commissario Maigret, e un po’ ero convinto che il resto della sua bibliografia fosse trascurabile. Su quest’ultimo punto mi sbagliavo, e negli ultimi mesi dei post Instagram avevano attirato la mia attenzione su alcuni suoi romanzi autoconclusivi. Poi mio padre mi ha regalato questo libro, e la coincidenza col viaggio in Belgio lo ha fatto finire sul mio comodino.
Il primo impatto non è stato dei migliori: devo ammettere che ho fatto fatica almeno per i primi due capitoli. Non avevo delle aspettative ben definite, ma l’incipit mi ha stordito: anche lo stile di Simenon è asciutto, ma in un modo totalmente diverso da quello di Simoni (non sto tracciando alcun parallelismo, è solo che li ho letti uno dopo l’altro e quindi il paragone mi è venuto facile). Le frasi sembrano tagliate con l’accetta, senza alcuno spazio per le descrizioni, e spesso sono i soli dialoghi a far andare avanti la vicenda.
Poi, improvvisamente, ho ingranato con la lettura e sono andato come un treno fino alla fine. Ho divorato le pagine, curioso di sapere come si sarebbe conclusa la vicenda tragica e folle di Kees Popinga. Credo che mi abbia aiutato il fatto di averlo letto in poco tempo (cosa insolita per me, che in genere ci metto un po’ a finire i romanzi): ho avuto l’impressione che questo libro si apprezzi di più se letto con avidità – d’altra parte Simenon scriveva come un fulmine, ed era capace di completare un romanzo in una decina di giorni.
Fenton Bresler, biografo di Simenon, ha definito questa parte della sua produzione (i cosiddetti “romanzi duri”) come dei thriller psicologici in cui l’autore esplora la parte più oscura della mente. L’uomo che guardava passare i treni è esattamente questo: una lenta caduta negli inferi, in egual modo lucida e schizofrenica. Mi è piaciuto molto e l’altro giorno, in libreria, mi sono sorpreso a spulciare nel catalogo Adelphi alla ricerca del mio prossimo Simenon.
Citazione preferita:
Per quarant’anni mi sono annoiato. Per quarant’anni ho guardato la vita come quel poverello che col naso appiccicato alla vetrina di una pasticceria guarda gli altri mangiare i dolci. Adesso so che i dolci sono di coloro che si danno da fare per prenderli.
🎵 Ascolti
Una rubrica in cui parlo di musica senza avere alcuna competenza.
Questo mese ho ascoltato essenzialmente una sola canzone, ma una di quelle che rimetto da capo almeno tre-quattro volte di fila per quanto mi piace. Si tratta di Wreckage dei Pearl Jam, terzo singolo estratto dal loro ultimo album.
Devo ammettere di non aver mai seguito particolarmente i Pearl Jam, e mi dispiace perché a questo punto avrei potuto fare mio questo commento che su YouTube ha fatto incetta di voti: Pearl Jam was there when I was an angsty teen and now they’re still around with my mid-life crisis phase.
Nonostante tutto, alcune canzoni (Whishlist, la loro versione di Last Kiss) sono finite lo stesso presto o tardi nelle mie playlist. Wreckage è destinata ad andare incontro alla stessa sorte: mi ha conquistato subito, con quel giro di accordi ipnotico che accompagna tutta la canzone, e soprattutto con quel minuto finale che mi fa venire i brividi anche all’ennesimo ascolto.
🔗 Link
Una raccolta dei migliori articoli in cui mi sono imbattuto in giro per il web questo mese.
È giugno, ci sono gli Europei di calcio: è inevitabile che io sia finito a leggere un sacco di articoli sull’argomento. Se poi ci mettiamo il fatto che L’Ultimo Uomo – come suo solito – ha sfornato una serie incredibile di pezzi di qualità, questo mese la rubrica dei link prende una svolta monotematica.
Giocatori che sono esistiti solo agli Europei di Emanuele Mongiardo. Avete presente quei giocatori di cui ci si innamora durante gli Europei, al punto che vengono comprati in fretta e furia dal top club di turno, salvo poi finire nel dimenticatoio nel giro di pochi mesi? Ecco, quelli.
L’estate di Cassano e Balotelli di Stefano Piri. Ho rimosso buona parte degli Europei del 2012, quelli in cui arrivammo in finale soltanto per subire una batosta dalla Spagna. Ma questo pezzo me li ha fatti rivivere insieme ai suoi due protagonisti più iconici e maledetti. Prendetevi i ventuno minuti stimati per arrivare in fondo all’articolo: è letteratura pura.
Come fare un disastro all’Europeo di Marco Gaetani. Gli Europei del 2004 invece me li ricordo bene, come tutti gli eventi sportivi finché ero uno spensierato teenager. Questo articolo mi ha fatto sanguinare il cuore di nuovo, ma va bene così.
Un altro mese è andato. Ci risentiamo tra una trentina di giorni (tranquilli, non vi lascio senza post nuovi da leggere in vacanza). Ciao!